This is the blog for Franko B's sculpture class at Accademia di Belle Arti di Macerata, Italy.

Percorso I

Chiunque in una società
tende a comporsi,
spesso però siamo già composti,
a volte riusciamo a scomporci,
per poi ri-assemblarci.

Se non esistesse già una composizione di se stessi, non sapremmo cosa analizzare,collegare e cercare. Gli artisti,gli scienziati, i ricercatori,smembrano e rimodulano passati,per percepire di se stessi un processo di elaborazione,consapevoli che attraverso l'azione si costituisce una reazione.
Se non fosse per questo non esisterebbe il concetto di notte e giorno,di mese ,di anno, di storia; né quello di evoluzione.
Così nasce una sensibilità del tutto personale riguardo quello che può significare un'esistenza relazionata a questo sistema.
Io ho deciso di non essere immobile,passivo,subordinato alla norma,ho deciso che non avrei adottato metodi omologati,bensì li avrei confutati,denigrati e espulsi dalla mia gamma di possibilità.
Ho deciso di intraprendere un percorso che provi,che mi tenti addosso, la creazione di un mio metodo.
Così un processo di costruzione.
Un processo a tutto ciò mi ha costruito nel tempo,giudice di tali eventi,personaggi,cose;io.
Ho iniziato,cementificare quelle che erano le mie fondamenta culturali sarebbe stato il primo passo.
Il simbolo di molta mia storia doveva rappresentarsi e di esso sacrificarsi,per espiare la sua corruzione,il suo logoro significato.
Ormai marcio doveva essere espulso dai miei pensieri ,che rischiavano il contagio.
“l'immondizia si lascia fuori dalla porta”.
Così si materializzò il pensiero espulso.

“che Dio m'oda se ciò che penso sia di giustizia coperto;
perché il mio pensiero di recente verte sull'ipocrisia che l'uomo egoista fa della parola evoluzione.
Io da miscredente vedo un simbolo che guida di molti è,
e che per altri è giustificazione,per atti poco civili,
per cui serve una contraffazione.
Della fede ne fanno un velo per difendersi dai chiacchieroni.
Falsi,chiacchieroni e parassiti,si son vestiti.
Potremmo credere ad un uomo esistito,forse eroe,forse personaggio di mitologia,ma certamente uomo,con limiti e fragilità.
Non difendo né fede né religione,credo nella croce ,simbolo di sofferenza e sacrificio,simbolo di molto abbiamo costruito,simbolo di errore ed orrore.
Croce dell'uomo e non di Dio.”

Una volta fuori,il simbolo doveva esteriorizzarsi,e ricoprire con nuove vesti il proprio ruolo.
Avrebbe dovuto munirsi di nuove energie comunicative,nuova iconografia da affiancare a quella della tradizione. Così iniziano le ricerche di contestualizzazione di un simbolo che sembra ormai assorbito dalla società , ma difficilmente digeribile.
Allora le scelte materiche danno connotazioni personali alla croce.

Cemento.
Il costruire è una mania e una fobia dell'uomo. I romani scoprirono la calce e l'opus cementitium ,e di esso ormai ricopriamo qualsiasi cosa. Il cemento tutto copre e tutto seppellisce,in esso.
Così 4 croci di cemento,3 con dei buchi che attraversano il corpo,una sola senza un graffio.

“Non mi è bastato dovevo sparare ,come un gesto folle, per eliminare.
Ma una si è salvata,oppure sta aspettando il suo turno,forse lei il simbolo di una purezza inaspettata.”

Plastica,PVC.
La materia che noi oggi sviluppiamo e utilizziamo in più campi. Ho deciso per il PVC,una plastica telata che mi attrae per la sua opaca lucidità,per la sinuosità con cui cade,per il suo nero che accarezza le sfumature bluastre del petrolio.
Una materia assolutamente non-nobile, anzi inquinante.
La plastica ad oggi ci fa da contenitore,siamo inglobati nella plastica,dall'immondizia agli alimenti.

La body-bag,contenitore di assassinati,forse quel Cristo ucciso,anzi CROCI-FISSO,dall'ignoranza dei più che non conoscono il sacrificio.

Ad oggi la croce lascia strascichi nei nuovi progetti che si aprono e si chiudono,ma come la storia non può essere cancellata, neanche nella mia memoria e nelle mie congetture può volatilizzarsi un immagine così forte,così pregna di densa luce da avermi abbagliato ed accecato.
Accecato,tormentato.
Forse un giorno riacquisterò la vista,forse, con occhi nuovi.

Lascio l'intervento con un appunto maturato nel corso dell'anno ,che mi ha accompagnato lungo questi ultimi mesi,sorto da una riflessione che abbraccia polemiche tra idealisti e tecnici di inizio anno e pensieri per migliorare il metodo di lavoro tanto auspicatomi,con l'obiettivo di poter mantenere costante il regime del motore che mi alimenta.

“Materiale,sarà sempre reperibile,
l'idea,diversamente,sfugge e catturarla permette l'analisi e la progettazione,
la fase realizzativa dev'essere istantanea,fugace,immediata,un atto finale.
Forse quest'atto finale sarà tardo a venire per le complicanze progettuali o vitali dello stesso lavoro.
Importante quindi è abbandonare la contemplazione ,essa non produce,e perseguita l'ideale,che l'ideatore stesso rielabora quando si perde nella noia dei processi,
concretezza quindi. Nel progettare,attenzione.”

800 parole

Monica Gattari: 800 parole sul percorso artistico personale sviluppato durante l’anno

è una storia personale, è un percorso unico…ho cercato, oggi mi sono voltata, ho percorso una strada alternativa, mi sono accorta che i percorsi-percorribili sono infiniti. Restare fermi immobili perché tanto la nostra strada ci aspetta. Ma per quanto ancora? Ancora per molto non temere. Io invece ho paura, ho paura di perdere attimi importanti, per sempre. Guarda che così non li perdi, ma ne acquisti di nuovi. Sì, forse.
Ho avuto la sensazione di trovarmi talmente innamorata da non riuscire più a respirare. In apnea ho avuto paura di morire, ho avuto paura di dimenticare le cose belle. Per fortuna le avevo scritte, per fortuna le ho buttate.
Ho ricominciato spesso. Mi sono quasi sempre tradita, contraddetta. Pentita. Ho usato il mio errore per fare, progettare. Ipotizzare. Ho la passione per la sperimentazione, ma anche per la tradizione. Non amo le leggi, adoro le regole. Ho la passione per i tentativi di equilibri. Mi piace osservare il tempo massimo in cui un oggetto riesce a restar fermo su ciglio di un dirupo durante un temporale. L’istante prima di.
Appena prima di morire si esala l’ultimo respiro. L’ultimo respiro, l’ultimo istante in cui un oggetto è visibile nella nostra realtà. Se l’oggetto scivola giù nel dirupo non vuol dire che l’oggetto scomparirà dalla propria esistenza. Ciò che non vediamo o non vediamo più vive un’altra dimensione, vive un altro luogo, è solamente lontano dalla nostra vista, dai nostri occhi, dalla nostra percezione visiva.
Sono un po’ dispiaciuta quando resto tradita. Mi diverte osservare senza occhiali, non vedo i particolari, non vedo troppi difetti, non vedo cose piccole. Non riconosco le persone dall’altro lato della strada. Mi diverte perché tutto è molto più fluttuante, più veloce e imprevedibile. Sono dispiaciuta, perché ho paura della velocità, ho paura di non distinguere ciò che è bene.

Vorrei fotografare ogni cosa che mi circonda, catalogare tutto, data di nascita, colore, stato fisico e registrare infine gli ultimi momenti delle loro vite. Ho la passione di lasciare tracce e vedere se dopo un anno o più esse ancora son lì. Mi inquieta, nello stesso tempo, trovare le tracce che ho lasciato molto tempo prima, penso a come ero, come stavo mentre lasciavo quelle tracce.

Penso che poetica significhi vita, “qual è la tua poetica?” significa “qual è la tua vita?”.” Qual è la tua vita?” che domanda è? E’ formulata male o vuol dire davvero “qual è delle tante la tua vita?”. Allora anche la poetica non è unica, potrebbe non essere l’unica possibile. Ho la passione per le alternative, per le strade secondarie, per l’imbarazzo della scelta. Non sopporto dover scegliere ora, per forza, la cosa migliore.
Fin’ora ho trovato piacere nello sbagliare, nel cancellare e ricominciare. Ho la passione per l’istante appena prima dell’errore. E’ solo lì che trovo un mio sorriso, ironico. Non amo prendermi sul serio, amo piuttosto essere seria.
Non conosco i numeri e “800 parole” per me significa “tante parole”. Ho la passione per le parole, mi piace giocarci, mi piace litigarci. Mi piace non saper cosa dire, farmi suggerire. Inventare storie partendo da mie verità. Mi piace dire la verità. Quando è possibile. Quest’anno tante cose sono cambiate.
Ho affrontato dei pensieri differenti fra essi, ma pian piano magicamente connessi.

Ho visto terre lontane, ma troppo vicine per modificare il mio modo di pensare, forse è un bene perché ho ampliato il mio viaggio interiore fatto di momenti in cui un attimo fa la differenza, in cui le parole sono le sfumature; forse perché contano le azioni, le trasformazioni che esse portano nella realtà che percepisco.
L’arte è una visione, un’immagine che fa la differenza tra il vuoto dentro e l’ignoto fuori.
C’è sempre il falso, c’è sempre il vero, è tutto parallelo; osservo questo sentiero a volte da attore, altre volte da spettatore, quasi mai da comparsa, per non rischiare di andare contro un muro in cui compaiano bandiere con la scritta “vaffanculo”.

Si potrebbero fare altri paragoni per spiegare il presente, o meglio ciò che il passato ci suggerisce di fare, ma sarebbe un vantaggio per la storia. Sarebbe una vittoria, ma di questi tempi sarebbe un errore, visto che non sempre questa parola ha portato una grande gloria, intesa come verità, di idee e umiltà.
Ho bisogno di questo per capire ciò che posso trasmettere agli altri, a chi guarda ma non sa vedere, a chi ascolta ma non sa sentire,a chi parla e non sa tacere.
Di strada ancora ce n’è molta, so che posso ancora cucire abiti da strappare, da consegnare al prossimo, da donare a chi ne avrà bisogno, a chi ne farà tesoro, a chi avrà il coraggio di indossare e sarà in grado di sognare.

http://monicagattari.blogspot.com/
“Quando c’ero, non pensavo, quando pensavo, non c’ero”
Non è mai semplice scrivere di se stessi, per quanto io possa avere una sorta di adorazione verso tutto ciò che è espressione e manifestazione della parola, penso che chi opera o si accinge verso l’illimitato campo dell’arte, debba il meno possibile parlare del proprio lavoro, poiché e comunque, qualsiasi concetto palesato, anche il più obiettivamente possibile, non potrà mai esprimere a pieno quel mistero intenso e profondo che lega l’artista alla sua opera, soprattutto a quel particolare momento che è il suo concepimento.
Nell’opera entrano in gioco innumerevoli elementi che esulano dalla parola, pertanto il mio dubbio è se la parola non impoverisca la scultura nell’istante stesso in cui è pronunciata dal suo artefice.
Credo ci sia il rischio di dare una lettura condizionata e condizionante, di conseguenza limitata dell’opera; è come se si cercasse di definirne i confini invece di lasciarla libera di sconfinare e quindi di significare arbitrariamente.
Dopotutto è anche vero che da quando l’artista la licenzia, l’opera non gli appartiene più, ma piuttosto appartiene a chi la osserva, a chi la fa sua nel fruirne, a chi la carica di significato con il suo personale sentire.
Alla luce di ciò, scelgo di scrivere cercando di focalizzare il mio pensiero su dei punti prescelti e sul significato che questi hanno sul mio operare.

“Il tempo mi ha rubato il tempo e ora non ho più tempo da perdere”
Il mio percorso artistico è cominciato in netto ritardo e oggi il tempo pressa sempre più incisivo;non che la questione anagrafica debba considerarsi un limite, ma sicuramente il tempo a disposizione è ridotto.
Ho dedicato gran parte della mia vita a costruire quella solidità che mi avrebbe messo al sicuro da qualsiasi tipo di disorientamento, mentre caparbiamente e vigliaccamente relegavo la spinta creativa in un angolo cieco della mia esistenza. Negli anni ho scritto, per anni ho scritto, inezie che hanno tuttavia avuto la loro utilità, hanno, infatti, mantenuto vivo un barlume di quella creatività insita nel profondo e celata.
Ora non è più tempo di viltà, dopo anni trascorsi a pensare è arrivato il tempo di fare, “faccio cose”, non mi pongo in merito troppe domande ma rispondo a un bisogno quasi fisico, a un’urgenza che preme e mi conduce a continuare a fare cose.

“Vorrei trovare la severità di un asceta e mi ritrovo la mollezza di un invertebrato”
La riflessione attuale sul mio lavoro vuole partire da questa frase che ronza nei miei pensieri, poiché la mia ricerca si rivela come un’intensa lotta, il confronto con la materia e la forma dell’arte un grande dilemma, un mistero ancora irrisolto, una ressa tra lunghe attese, tentativi e confuse risposte.
Ciò è ovvio, poiché da una parte, non riuscirò mai a essere completamente soddisfatta e appagata del mio lavoro, dall’altra il persistere della spinta emotiva e il bisogno di sfidare la materia mi conduce a forzare oltre, fino a sfidare le mie possibilità.
A chi mi chiede cosa scolpisco, rispondo che “faccio cose”, che mi diletto con i materiali, qualsiasi essi siano, forse faccio sculture, ma non è questo che conta, conta la necessità che il mio corpo, le mie mani, hanno del confronto con la materia, così come la mia mente ha la necessità di nutrirsi delle parole.
Una, due o forse più anime vivono in ognuno di noi, in me sono diverse e quotidianamente tentano di divorarsi a vicenda.
Dopotutto siamo quello che siamo ma anche quello che crediamo di essere, come siamo anche quello che gli altri pensano noi siamo, ma ancora, e soprattutto, siamo quello che vorremmo essere, ed è per questo che lottiamo.

“Se non si spezza la dura legge della materia non c’è spirito che si possa liberare”
Il lavoro con certi materiali conduce a intense sensazioni tattili, olfattive, elementi caratterizzanti il lavoro di chi scolpisce, di chi sfida i materiali con le mani o con i ferri del mestiere, di chi cerca di svelare i contenuti, di chi cerca l’essenza stessa, l’anima delle cose e usa un percorso plastico, magari inventando, interpretando, o semplicemente trasformando la materia di cui dispone.
La materialità, appunto, nella miriade delle sue possibili articolazioni è la misura dello scultore.
La materia condiziona l'uomo artista dal suo prospettarsi a livello molecolare fino al suo costituirsi in forme e in estensioni.

“Compito dell’opera è di svelare l’arte e non di svelare l’artista”
E' il discorso, sicuramente scontato, dell'immagine derivata dalla materia, dell’immagine che insorge come un assillo, come un qualcosa d’incontenibile che ci sta dentro ed esige una forma.
Quel qualcosa che quando avviene genera incontenibilmente un campo di emozioni, e salda così la magia propria del fare scultura in un collocarsi dentro le dinamiche delle forme, dall'indistinto fino al distinto, in una molteplicità di punti di aggregazione dove si realizza il fascino del produrre tipico dell'arte che è sensibilità particolarmente assorbita che crea e che svela.

“Tutto e il contrario di tutto”
Tra geometria e organicità, tra naturale e artificiale, tra peso e leggerezza, tra materiale e immateriale, tra ordine e disordine, tra tutti gli elementi opposti, tra quei contrasti e quelle contraddizioni che compongono l’umana realtà, luce buio, bianco nero, vuoto pieno, materia spirito, trasparente opaco, ecc.
Ecco forse il mio pensiero si muove su questi contrasti e ancora di più sul concetto stesso di contrasto, di opposto, di antitetico.
Ma nulla, e credo sia giusto, nell’opera è dichiarato veramente fino in fondo, tutto rimane e deve rimanere in uno stato di allusione, di potenzialità, tutto può cominciare e ricominciare, tutto può essere tutto e il contrario di tutto, e muta sempre di significato secondo come si guarda, secondo chi guarda, secondo quale stato d’animo in quel preciso momento ha chi guarda, mai uguale a se stesso.

“Anno accademico 2009/2010 - l’inaspettato prende forma”
Entrando nel merito del lavoro svolto durante quest’anno, posso dire che si è innescato e ha cominciato a prendere forma nel mio lavoro un percorso parallelo a quello di sempre.
Questo nuovo percorso è nato conseguentemente agli stimoli che mi sono arrivati in ambiente accademico e che ho cercato di cogliere e interpretare.
La forza di questi stimoli ha favorito una certa produzione d’idee, non tutte progettate e/o portate a termine con interventi precisi e definiti, ma comunque ricche di significato.
Nel mio consueto percorso, mi confronto generalmente con quei canoni e materiali strettamente legati a un discorso puramente scultoreo, dove gli elementi basilari sono quelli propri della plasticità nel rapporto forma materia spazio; confronto che si traduce in soluzioni che palesano la necessità di arrivare alla sintesi estrema, alla pura essenzialità, con accentuati caratteri di estenuante ed esasperata risoluzione delle superfici, non disdegnando nessun tipo di materiale manipolabile direttamente o con l’uso di strumenti.
Nel nuovo e parallelo percorso, invece, a seguito dei temi assegnati, mi sono indirizzata verso soluzioni nuove, verso espressioni legate a un sentire tutto interiore e dettate più da elementi mentali che fisici, imponendomi anche la necessità di adottare materiali e canali diversi e per certi aspetti a me nuovi.
I lavori realizzati seguono un proprio percorso e rimandano a qualcosa di successivo, in una trasformazione di stato che dall’oggetto originale arrivano a qualcosa di diverso, a qualcosa d’altro.
Ad esempio per il tema dell’oggetto trovato, sono partita da un semplice tronco che custodivo da anni e che sarebbe dovuto rientrare nel mio lavoro sulla forma non forma dell’acqua.
L’oggetto in se ha rappresentato solo il principio di una storia sul concetto di tempo, del tempo sentito e del tempo scandito, del tempo uno e multiplo.
La storia divisa in quattro diverse fasi cerca di narrare il tempo della natura, il tempo dell’uomo, il tempo della tecnologia e infine l’assenza di tempo.
Per il secondo tema, quello della paura, inizialmente ho cercato di riflettere sulle paure più comuni che riguardano più o meno tutti, da qui “Un ritorno causale”, composizione fotografica che ritrae una serie di bambole e pupazzi.
In seguito mi sono soffermata sulle mie paure e partendo dall’elaborazione iniziale del mio occhio sinistro, ripetuto in una composizione modulare, sono arrivata a elaborare una mia precisa e innata paura, quella del buio e precisamente quella del non poter vedere.

fabrizio cotognini show in firenze:USTIONI a cura di matteo bergamini nei giorni del contemporaneo


pilota: in berlin a cura di marco pezzotta e sctola bianca


PILOTA:SHOW IN BERLIN:







‎1. Federico ARCURI
2. Luigi e Luca
3. Hannelore VAN DIJCK
4. Alice MASPRONE
5. Jessica GAUDINO
... 6. Pietro SPOTO
7. Giuseppe CIRACì
8. Derek DI FABIO
9. Matteo SANNA
10. Elena BELLANTONI
11.Stefano MINZI
12. Ignacio CHAVARRì
13. Cristiano TASSINARI
14. Svetlana OSTAPOVICI
15. Federico LUPO
16. Alessandro DI PIETRO
17. Susanna POZZOLI
18. Cesare GALLUZZO
19. Franko B
20. Fabrizio COTOGNINI
21. Stefania MIGLIORATI
22. Gianni MORETTI
23. Bruno OLLé
24. Marco PEZZOTTA
25. Serena VESTRUCCI
26. Ivana SPINELLI
27. Maria Elisabetta NOVELLO
28. Gemma NORIS
29. Irina NOVARESE




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PILOTA. Berlino. 22 agosto 2010.

PILOTA
Un progetto di Marco Pezzotta e Scatolabianca.

BERLINO. Domenica 22 Agosto 2010

ARTISTI:
Federico Arcuri, Elena Bellantoni, Franko B, Ignacio Chávarri, Giuseppe Ciracì, Fabrizio Cotognini, Derek Di Fabio, Alessandro Di Pietro, Cesare Galluzzo, Jessica Gaudino, Luigi e Luca, Federico Lupo, Alice Masprone, Stefano Minzi, Stefania Migliorati, Gianni Moretti, Gemma Noris, Irina Novarese, Maria Elisabetta Novello, Bruno Ollé, Svetlana Ostapovici, Marco Pezzotta, Susanna Pozzoli, Matteo Sanna, Ivana Spinelli, Pietro Spoto, Hannelore Van Dijck, Cristiano Tassinari, Serena Vestrucci.

Un piccolo camion preso a noleggio e parcheggiato a lato di una strada; della categoria di veicoli normalmente utilizzata per traslochi o spostamento di materiale da un quartiere all'altro o da una città ad un'altra limitrofa.
L'interno del container (16m3 4*2*2m) viene utilizzato come spazio nel quale allestire una piccola mostra. Come parte di una carovana il veicolo inizia una traversata polare o desertica in scala urbana, all'interno del container ognuna delle opere delinea il proprio spazio in modo non egoistico, ma mirato alla riuscita della spedizione.
L'unico collegamento tra il baratro sociale che separa il centro di una città dalla sua periferia è la rete stradale; spazio di transito necessario per muoversi tra due punti. È questo un buon luogo per il lavoro? Cosa significa essere "aperti al pubblico"? Si è disposti a prestare attenzione ad incontri casuali o è meglio proseguire dritti verso la propria meta?
Il progetto vuole proporre un motivo di sosta culturale, come un incidente di percorso finalizzato alla riuscita di un tragitto dell'immaginario.
Oltre ad appropriarsi di uno spazio sospeso tra l'interno e l'esterno, il nomade ed il sedentario, ognuno degli artisti pone il proprio lavoro nel ruolo di oggetto con valore, da trasportare, da traslocare, da avere appresso per rinnovarne l'utilità, aumentarne la gittata.
La carovana accentua le potenzialità individuali e rende possibili spostamenti che
in solitaria sarebbero impensabili. Per lo spettatore il container ha più l'aspetto di una copertura temporanea che di una sede stabile per il lavoro. La vettura parcheggiata propone una reinvenzione dei locali abitativi delle opere, locali nei quali il lavoro necessita di essere ospitato. Anziché fare richiesta di uno spazio l'opera si parcheggia temporaneamente sul suolo collettivo, all'interno di un proprio riparo nel quale è lei stessa ad ospitare il suo pubblico.

In sostanza: niente traversate epiche, ma ci si prende il rischio dell'uscire di casa.

ENGLISH VERSION

PILOTA

Project by Marco Pezzotta and Scatolabianca.
BERLIN. Sunday, August 22nd, 2010

ARTISTS: Federico Arcuri, Elena Bellantoni, Franko B, Ignacio Chávarri, Giuseppe Ciracì, Fabrizio Cotognini, Derek Di Fabio, Alessandro Di Pietro, Cesare Galluzzo, Jessica Gaudino, Luigi e Luca, Federico Lupo, Alice Masprone, Stefano Minzi, Stefania Migliorati, Gianni Moretti, Gemma Noris, Irina Novarese, Maria Elisabetta Novello, Bruno Ollé, Svetlana Ostapovici, Marco Pezzotta, Susanna Pozzoli, Matteo Sanna, Ivana Spinelli, Pietro Spoto, Hannelore Van Dijck, Cristiano Tassinari, Serena Vestrucci.

One small truck-to-rent parked along the roadside.
This van is normally used for removing / shifting material from one area to another, from one city to another in the neighborhood.
Within the container (16 m3 4 * 2 * 2m) there's a small exhibition. As part of a convoy the truck start a crossing of a desert or polar path on urban scale.
The sole link between the social chasm that separates the center of a city from its suburbs is the road network. A transit space necessary to move from a point to another. Is that a good place for an artwork? What does it mean to be open? And to go public? Do people pay attention to chance encounters, or they better walk straight to their achievements?
The project aims at providing a chance for a cultural break. An accident which is useful for the success of a journey (of the imagination). As well as taking possession of a suspended space between inside and outside, which is both nomadic and sedentary, each artist uses his/her work as an object with some value, by being transported and held with them, its utility is renewed and its range increases.
The caravan enhances individual potential and turn unimaginable distances into a reachable one. As for the viewer, the container looks mainly as a temporary roof than as a permanent place for the artwork. The parked truck offers a second version of the usual spaces for artworks, spaces where apparently the work needs to be hosted. Rather than "asking for a space", the work is temporarily parked on the public ground. Under its own shelter where to welcome its audience.

Shortly: no epic journey, but with the risk to exit home.


I STILL LOVE


Franko B
I STILL LOVE

Solo show, curated by Francesca Alfano Miglietti

October 9th - November 10th, 2010

PAC Padiglione d'Arte Contemporanea
Via Palestro, 14 - 20121, Milan - Italy

PILOTA: ART SHOW IN BERLIN 22 AGOUST


Berlin; Sunday, August 22nd, 2010. Federico Arcuri; Elena Bellantoni; Franko B; Ignacio Chávarri; Giuseppe Ciracì; Fabrizio Cotognini; Derek Di Fabio; Alessandro Di Pietro; Cesare Galluzzo; Jessica Gaudino; Luigi e Luca; Federico Lupo; Alice Masprone; Stefano Minzi; Stefania Migliorati; Gianni Moretti; Gemma Noris; Irina Novarese; Maria Elisabetta Novello; Bruno Ollé; Svetlana Ostapovici; Marco Pezzotta; Matteo Sanna; Ivana Spin...elli; Pietro Spoto; Annelore Van Dijck; Cristiano Tassinari; Serena Vestrucci

One small truck-to-rent parked along the roadside.
This van is normally used for removing / shifting material from one area to another, from one city to another in the neighborhood.
Within the container (16 m3 4 * 2 * 2m) there’s a small exhibition. As part of a convoy the truck start a crossing of a desert or polar path on urban scale.
The sole link between the social chasm that separates the center of a city from its suburbs is the road network. A transit space necessary to move from a point to another. Is that a good place for an artwork? What does it mean to be open? And to go public? Do people pay attention to chance encounters, or they better walk straight to their achievements?
The project aims at providing a chance for a cultural break. An accident which is useful for the success of a journey (of the imagination). As well as taking possession of a suspended space between inside and outside, which is both nomadic and sedentary, each artist uses his/her work as an object with some value, by being transported and held with them, its utility is renewed and its range increases.
The caravan enhances individual potential and turn unimaginable distances into a reachable one. As for the viewer, the container looks mainly as a temporary roof than as a permanent place for the artwork. The parked truck offers a second version of the usual spaces for artworks, spaces where apparently the work needs to be hosted. Rather than “asking for a space”, the work is temporarily parked on the public ground. Under its own shelter where to welcome its audience.

Shortly: no epic journey, but with the risk to exit home.

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Un piccolo camion preso a noleggio e parcheggiato a lato di una strada; della categoria di veicoli normalmente utilizzata per traslochi o spostamento di materiale da un quartiere all’altro o da una città ad un’altra limitrofa.
L’interno del container (16m3 4*2*2m) viene utilizzato come spazio nel quale allestire una piccola mostra. Come parte di una carovana il veicolo inizia una traversata polare o desertica in scala urbana, all’interno del container ognuna delle opere delinea il proprio spazio in modo non egoistico, ma mirato alla riuscita della spedizione.
L’unico collegamento tra il baratro sociale che separa il centro di una città dalla sua periferia è la rete stradale; spazio di transito necessario per muoversi tra due punti. È questo un buon luogo per il lavoro? Cosa significa essere “aperti al pubblico”? Si è disposti a prestare attenzione ad incontri casuali o è meglio proseguire dritti verso la propria meta?
Il progetto vuole proporre un motivo di sosta culturale, come un incidente di percorso finalizzato alla riuscita di un tragitto dell’immaginario.
Oltre ad appropriarsi di uno spazio sospeso tra l’interno e l’esterno, il nomade ed il sedentario, ognuno degli artisti pone il proprio lavoro nel ruolo di oggetto con valore, da trasportare, da traslocare, da avere appresso per rinnovarne l’utilità, aumentarne la gittata.
La carovana accentua le potenzialità individuali e rende possibili spostamenti che
in solitaria sarebbero impensabili. Per lo spettatore il container ha più l’aspetto di una copertura temporanea che di una sede stabile per il lavoro. La vettura parcheggiata propone una reinvenzione dei locali abitativi delle opere, locali nei quali il lavoro necessita di essere ospitato. Anziché fare richiesta di uno spazio l’opera si parcheggia temporaneamente sul suolo collettivo, all’interno di un proprio riparo nel quale è lei stessa ad ospitare il suo pubblico.

In sostanza: niente traversate epiche, ma ci si prende il rischio dell’uscire di casa.